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La Corte UE e le nostre concessioni

Un dato è certo: la Corte di Giustizia Europea ha un gran da fare con il nostro sistema concessorio. Dopo circa sei mesi dalla nota sentenza Placanica, veniva pubblicata la sentenza nella causa C-269/04, con la quale la Corte di Giustizia ha ritenuto illegittimi i rinnovi senza gara nel corso del 2001 di 329 concessioni per l’esercizio delle scommesse ippiche. L’avvio al giudizio è stato dato da un ricorso della Commissione Europea, che ex art. 226 del Trattato aveva in diverse occasioni (lettera di diffida del 24 luglio 2001, parere motivato del 16 ottobre 2002) richiamato l’Italia in relazione alle concessioni controverse.

Il governo italiano rispondeva ai predetti solleciti affermando che prima di dar corso ad una nuova gara era necessario “procedere ad una puntuale ricognizione della situazione finanziaria relativa ai titolari delle concessioni ancora in vigore. Nelle more venivano emesse due diverse norme: la legge 16 del 27 febbraio 2002 n. 16 e la legge n. 200 del 1 agosto 2003. Dopo circa due anni, e più precisamente il 17 giugno 2004 la Commissione, non avendo ricevuto “alcuna informazione supplementare riguardo alla conclusione [della] ricognizione e … di una gara per la riattribuzione dele concessioni controverse” presentava ricorso per inadempimento contro l’Italia. A ben vedere la Commissione ha sollevato nel predetto ricorso una sola censura: “La Repubblica italiana, avendo rinnovato le 329 vecchie concessioni dell’UNIRE per la gestione delle scommesse ippiche senza previa gara d’appalto, è venuta meno agli obblighi ad esso incombenti in forza del Trattato, e in particolare ha violato il principio generale di trasparenza nonché l’obbligo di pubblicità derivante dagli artt. 43 e 49 CE” ed infatti “le autorità nazionali che procedono ad una tale attribuzione sono tenute ad osservare il divieto di discriminazione e il principio di trasparenza al fine di garantire un adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura del mercato dei servizi alla concorrenza nonché il controllo sull’imparzialità dei procedimenti di aggiudicazione”. Mentre per il governo italiano il mancato rinnovo delle concessioni ippiche sarebbe giustificato dalla necessità: di garantire ai concessionari la continuità, la stabilità finanziaria ed un congruo rendimento per gli investimenti effettuati nel passato; di scoraggiare il ricorso ad attività clandestine, fino all’attribuzione delle 329 concessioni ippiche tramite gara. Queste giustificazioni secondo il nostro governo costituirebbero motivi imperativi e di interesse generale tali da legittimare deroghe ai principi del Trattato che implicano l’obbligo di aprire il mercato dei servizi alla concorrenza. Di diverso avviso la Corte di Giustizia, che accogliendo in toto le motivazioni della Commissione UE ha ritenuto la condotta dell’Italia in aperta violazione del divieto di discriminazione in base alla cittadinanza – che comporta un imprescindibile obbligo di trasparenza – nonché dell’obbligo di garantire un adeguato livello di pubblicità. Il rinnovo senza gara peraltro avrebbe impedito l’apertura alla concorrenza ed il controllo sull’imparzialità delle operazioni di aggiudicazione. L’organo di giustizia europeo ha altresì ritenuto i motivi addotti dal governo italiano non idonei a giustificare la restrizione di una libertà fondamentale garantita del Trattato, in quanto non valutabili quali motivi imperativi di interesse generale. Innanzitutto è bene chiarire alcuni punti, anche per dare il giusto peso a quei ping-pong di dichiarazioni da parte di vari soggetti ai media di settore, spesso (se non sempre) privi di fondamento giuridico. Lo snodo da cui si parte sul binario dell’inefficacia di questa decisione sulla situazione attuale sta nei paragrafi 17 e 18 della sentenza: la legge 200/03, cosi come la decisione 107/03 dell’UNIRE sono intervenute dopo la scadenza del termine stabilito nel parere motivato della Comissione del 16 ottobre 2002, e pertanto la Corte non ne ha potuto tenere conto. Così come – quanto agli effetti di questa sentenza – la gara Bersani calza alla previsione dell’art. 228 del Trattato secondo cui lo Stato membro condannato è tenuto a prendere i provvedimenti “che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta”, e quindi indire una nuova gara nel pieno rispetto dei principi di cui all’art. 43 e 49. Sebbene questo appaia rassicurante, non si può d’altronde non considerare la sequela di errori commessi nella gestione di questo caso, i cui effetti quantomeno vanno ad aumentare la confusione che già aleggia nella testa dei nostri giudicanti. Abbiamo chiaro dalla Corte cosa valga per derogare agli artt 43 e 49 CE, ossia in che si concretino i motivi imperativi di interesse generale di cui agli artt 45 e 46 CE, deroghe che non sono state invocate dal nostro governo nel corso del giudizio, e che hanno (avrebbero) la stessa rilevanza effettiva di quelle malamente invocate, ossia la tutela dei consumatori, la prevenzione della frode, la prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale (tralascio l’incitazione dei cittadini ad una spesa eccessiva collegata al gioco per obiettive difficoltà d’interpretazione) Nel caso in cui il governo italiano non dovesse adottare (possiamo dire “non avesse adottato”?) i provvedimenti necessari per far cessare la violazione, la Commissione potrebbe nuovamente ripetere la procedura pre-contenziosa, che si dovrebbe concludere con un parere motivato e con un nuovo ricorso davanti alla Corte di Giustizia (ai sensi dell’art. 228 Trattato). Su richiesta della Commissione, al termine di questo secondo procedimento, si potrebbe “comminare il pagamento di una somma forfettaria” (pagamento di una somma di denaro una tantum) “o di una penalità” (pagamento di una somma di denaro di importo proporzionale al ritardo nell’adempimento) “. Sebbene le sanzioni pecuniarie non vadano affatto sottovalutate per motivi assai seri da poco richiamati dal Ministro delle politiche Comunitarie, possiamo affermare sulla scorta della recente esperienza che l’effetto peggiore non sia nella descritta procedura, quanto nell’obbligo del giudice interno (avallato dalla Costituzione) di applicare (o disapplicare) la normativa nel rispetto dei principi statuiti dalla Corte anche nel caso specifico, quando la sentenza scaturisca da un caso sollevato dalla Commissione stessa nei confronti dello Stato membro.

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