La rete ed i canoni
Una prima interpretazione della decreto legge n. 40/10 Convertito con integrazioni e modificazioni nella legge n. 73/10.
L’art. 2, comma 2, del d.l. 25 marzo 2010 n. 40, convertito con integrazioni e modificazioni nella legge n. 73/10 prevede che: “Per garantire il pieno rispetto dei principi comunitari sulla concorrenza in materia di concessioni pubbliche statali generatrici di entrate erariali, si considerano lesivi di tali principi, e conseguentemente vietati, ogni pratica ovvero rapporto negoziale di natura commerciale con soggetti terzi non precedentemente previsti in forma espressa e regolati negli atti di gara; ogni diverso provvedimento di assenso amministrativo di tali pratiche e rapporti, anche se già adottato, è nullo e le somme percepite dai concessionari sono versate all’amministrazione statale concedente [...]”. L’art. 10, comma 9-quater, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni ed integrazione nella Legge 26 aprile 2012, n. 44, interpreta la richiamata disposizione normativa “nel senso che la stessa trova applicazione nei riguardi delle concessioni pubbliche statali i cui bandi di gara siano stati pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 73 del 2010, e, per le concessioni in essere alla data di entrata in vigore della legge 44/2012, sempre che le pratiche o i rapporti negoziali citati con i soggetti terzi siano previsti in forma espressa nei relativi documenti di offerta”.
Il Tar del Lazio è stato chiamato a giudicare un ricorso introdotto da un operatore nei primi mesi dell’anno in corso sulla portata applicativa dell’art. 2, comma 2, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito con integrazioni e modificazioni nella legge n. 73/10, ai contratti stipulati dalla società ricorrente con i punti vendita fisici facenti parte della rete distributiva per l’esercizio dei prodotti che la stessa ricorrente è autorizzata a commercializzare in forza di una concessione.
L’input al ricorso è stato dato da un provvedimento dell’Amministrazione la quale, in applicazione al richiamato decreto legge, riteneva che “non verificandosi quanto presupposto ai fini della configurazione dell’eccezione al divieto” nei confronti del richiamato operatore “(..) è applicabile la disposizione di cui l’art. 2, comma 2, del d.l. 25 marzo 2010 n. 40”, e per l’effetto richiedeva il pagamento della somma complessiva di euro 147.439.290,00, in relazione alle somme corrisposte nel periodo intercorrente tra il 1° luglio 2009 e il 31 dicembre 2011 – dai 29.429 punti vendita fisici attivi nella sua rete distributiva. Secondo la II sez. del Tar Lazio la “chiave” per definire la controversia in esame, risiede nel parere n. 2027 del 23.5.2011, reso dalla II Sezione del Consiglio di Stato.
Il Consiglio, dopo aver ampiamente argomentato sull’esigenza di assicurare lo sviluppo della concorrenza anche nel mercato del gioco pubblico autorizzato, ha rilevato “l’esistenza di un collegamento inscindibile tra siffatta esigenza e quella di consentire un efficace controllo sui soggetti che esercitano l’attività di raccolta dei giochi”. Sempre il Consiglio di Stato evidenzia però di non potersi esprimere su casi specifici “in quanto al fine di rilevare una distorsione concorrenziale deve comunque essere condotta un’analisi concreta del comportamento tenuto dalle imprese, in considerazione dell’esistenza, sia a livello nazionale che comunitario, di uno specifico, dettagliato e articolato corpus normativo teso a reprimere le pratiche anticoncorrenziali, pacificamente applicabile anche alle gare per l’aggiudicazione dei contratti pubblici.”.
Alla luce di quanto esposto dal Consiglio di Stato, il Tar ritiene che affinché alla disposizione del decreto legge n.40/10, convertito con modificazioni ed integrazioni nella legge n. 73/10 possa attribuirsi un significato conforme all’ordinamento comunitario, la stessa “debba essere intesa semplicemente nel senso di ribadire che anche nel settore delle gare per l’assegnazione delle concessioni di gioco sono vietate le pratiche che ostacolano l’accesso al mercato o ne limitano la contendibilità, ovvero che, contestualmente, ledono altri rilevanti interessi pubblici quali la tutela del consumatore o la prevenzione delle frodi.”
Aggiunge poi il collegio che l’evoluzione normativa sembrerebbe aver poi confermato la ragionevolezza dell’interpretazione ab origine prospettata dall’operatore ricorrente, e cioè che, in base ai principi comunitari e costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa, nonché tutela del legittimo affidamento, si deve ritenere che quale che sia l’esatta portata della nuova disciplina, essa possa trovare applicazione solo in relazione ai contratti stipulati dopo la sua entrata in vigore. Viene altresì precisato dal tribunale amministrativo investito della vicenda, che la fattispecie in esame non rientra nemmeno nel dettato della concessioni “in essere” alla data di entrata in vigore della l. n. 44/2012.
E’ infatti evidente che ai fini dell’applicazione del divieto, permane comunque il requisito “negativo” rappresentato dalla circostanza che i rapporti con soggetti terzi non siano né previsti né regolati negli atti di gara, mentre viene introdotto un ulteriore requisito, costituito dal fatto che detti rapporti siano stati “previsti in forma espressa nei relativi documenti di offerta”. I rapporti contrattuali con i gestori instaurati dal monoconcessionario erano e sono previsti e regolati, nel loro contenuto essenziale, dagli atti di gara. Secondo il TAR “l’amministrazione non ha saputo o potuto dare dimostrazione alcuna della sussistenza di un illecito concorrenziale, ovvero della lesione dei valori protetti dalla norma”; riguardo alla posizione dell’operatore viene ribadito che i rapporti instaurati dalla Società ricorrente, erano e sono previsti e regolati nel loro contenuto essenziale dagli atti di gara, e “che, per quanto riguarda i servizi aggiuntivi, non presentano criticità concorrenziali né sono altrimenti incompatibili con l’oggetto della concessione”. Questa pronuncia del Tar, pubblicata lo scorso 25 settembre merita particolare attenzione in quanto: a) è il primo provvedimento che interpreta la c.d. legge sui canoni (id est), tanto discussa; e poi con la competenza in materia che oramai contraddistinte il Tar Lazio, b) ha focalizzato i temi della norma, alla luce anche del precedente parere del Consiglio di Stato. Ancora una volta la causa del problema non è attribuibile agli addetti ai lavori (potere amministrativo AAMS da un lato e dall’altro il potere giudiziario TAR nel caso di specie), ma al Legislatore, che invece di essere propositivo e di dotare questo settore di strumenti efficaci per operare in regime di mercato libero sempre attento alla tutela del consumatore, impiega cinque anni per promulgare norme di natura interpretativa che prevedono ed individuano regole per i concessionari, peraltro già contemplate nei relativi schemi di convenzione. Il Legislatore deve dunque normare ciò che non lo è (si pensi ai promogames), e non individuare regole ultronee per ciò che è sufficientemente normato e regolamentato.
L’articolo è stato pubblicato sul giornale bisettimanale ”TS”